La catena delle guerre imperialiste non si spezzerà se le lotte contro il capitale non ritroveranno la strada del marxismo rivoluzionario

Pubblicato: 2010-11-28 22:01:45

«Nel giudicare avvenimenti e serie di avvenimenti della storia contemporanea non si sarà mai in condizione di ri-salire sino alle cause econo-miche ultime. Persino oggi, che la stampa tecnica specia-lizzata fornisce un materiale così ricco, non è possibile nemmeno in Inghilterra se-guire giorno per giorno il cor-so dell’industria e del com-mercio sul mercato mondiale e i mutamenti che sopravven-gono nei metodi di produzio-ne, in modo da poter in qual-siasi momento fare il bilancio generale di questi fattori mul-tiformi, complessi e in conti-nua mutazione, fattori di cui i più importanti, inoltre, agi-scono a lungo e in modo la-tente prima di erompere im-provvisamente e violente-mente alla superficie». Così nel 1895 Engels esponeva, nel suo consueto modo cri-stallino, la principale diffi-coltà cui lo stesso Marx ave-va dovuto far fronte nell’ap-plicare il metodo del materia-lismo storico quasi mezzo se-colo prima nel suo studio sul-la rivoluzione del 1848 in Francia. Queste stesse diffi-coltà, naturalmente, dobbia-mo affrontare se vogliamo tracciare il quadro storico en-tro il quale l’imperialismo contemporaneo si sta moven-do nel suo divenire spesso contraddittorio e poco linea-re. Riconoscere le cause eco-nomiche ultime, oggi come ieri, è operazione impossibi-le, nel loro intreccio sempre tortuoso e complesso; ma in-dividuare la tendenza storica, imposta dalle sue leggi im-manenti, che caratterizza l’o-dierna fase del capitalismo, è non una possibilità, ma un dovere militante per un parti-to rivoluzionario. La citazio-ne da Engels può essere allo-ra completata da quella, con-tenuta nelle prime pagine dell’Imperialismo di Lenin, opera alla quale dovremo ne-cessariamente tornare: «Per rappresentare la situazione obbiettiva [delle classi diri-genti di tutti i paesi bellige-ranti] non vale citare esempi e addurre dati isolati: i feno-meni della vita sociale sono talmente complessi che si può sempre mettere insieme un bel fascio di esempi e di dati a sostegno di qualsivo-glia tesi. È invece necessario prendere il complesso dei da-ti relativi alle basi della vita economica di tutti gli stati belligeranti e di tutto il mon-do» 1. Un confronto tra le due guer-re del Golfo ci può permette-re, appunto, di individuare u-na tendenza in atto, tendenza che in quest’ultimo decennio ha subìto una evidente acce-lerazione storica. Lo faccia-mo seguendo il filo degli arti-coli che questo giornale ha dedicato non solo alla que-stione medio-orientale ma al corso dell’imperialismo in questi ultimi dieci anni2.

Prima guerra del Golfo

La I Guerra del Golfo era sta-ta preceduta, negli USA, da una serie di crolli nel sistema bancario e assicurativo, un aggravarsi delle difficoltà nel settore automobilistico, una crescita della disoccupazio-ne, il tutto accompagnato da-gli spettacolari crolli borsisti-ci del 1987 e 1989. Il preludio di ciò si era svolto nel decen-nio precedente. Questo era stato caratterizzato, per gli U-SA, dalla perdita di crescenti fette del mercato mondiale di fronte all’accresciuta aggres-sività commerciale di Ger-mania e Giappone. Ciò era u-na conseguenza della bassa produttività interna, della cre-scenti difficoltà di realizza-zione per il capitale produtti-vo investito nell’industria e nell’agricoltura, del graduale ritardo, fino al loro abbando-no, di interi settori produttivi e del loro trasferimento in al-tre più lucrative parti del mondo, dell’obsolescenza tecnologica (uno dei tanti pa-radossi dell’economia capita-listica: poiché si producono merci, e la tecnologia è nel suo assieme una merce, essa va venduta dove migliori sono le condizioni di realizzo). Importanti sezioni del capita-le industriale USA, nonostan-te (o proprio grazie ai) crolli in Borsa del 1987 e 1989, si rivolsero tanto più volentieri alla speculazione e alla rendi-ta finanziaria, sostenute la prima dalla forza del dollaro, la seconda anche dalla forza militare; entrambe dal credito largamente concesso da tutto il mondo, amici veri o pre-sunti, o anche nemici dichia-rati. Questa situazione, non nuova ma certo sempre più accelerata, non rappresentò solo l’apparente prevalere della finanza sulla produzio-ne. Dietro ad essa si trovava un intrico di processi a causa dei quali gli USA furono ri-dotti ad essere il primo paese debitore del mondo e sempre più in ritardo nel settore pro-duttivo, in quello commercia-le e nel rinnovo tecnologico. Col crollo dell’Unione Sovie-tica, che sembrava dischiude-re i tesori del mercato orien-tale, venne invece a ridursi u-na voce importante del bilan-cio USA, quella della spesa militare, accrescendo le già visibili crepe nell’economia interna, con inevitabili rifles-si sul piano internazionale. Negli anni precedenti la pri-ma guerra del Golfo, il Giap-pone aveva messo a segno u-na crescita senza precedenti, candidandosi a prima poten-za nella regione asiatica. Su un periodo più lungo (dal 1951), si registra un poderoso +7.1%, il doppio degli USA per lo stesso periodo (causa, le distruzioni belliche). Il for-te sviluppo fu legato, fino alla guerra del Golfo, alla politica di protezionismo sulle impor-tazioni ed esportazioni attua-ta dalle grandi conglomerate (le Chaeboll), con prezzi molto più elevati rispetto al mercato mondiale. Nel mede-simo periodo (1975-1991), la Germania conobbe un au-mento di quasi il 3%, ciò che le permise di seguire una po-litica di spesa sociale e di mi-surata espansione dei salari. Sia l’una che l’altra econo-mia entravano sempre più in competizione con gli USA sul mercato internazionale. Con la prima guerra giunse al capitale nordamericano un po’ di ossigeno, grazie al ri-lancio dell’industria bellica e delle tecnologie ad essa colle-gate, senza risolvere tuttavia le difficoltà strutturali inter-ne. Essa servì comunque qua-le prova di forza nei confron-ti di quei concorrenti, come Germania e Giappone - più agguerriti sul piano economi-co produttivo, molto di meno su quello militare - allo scopo di riaffermare il peso interna-zionale del dollaro e del con-trollo strategico di aree geo-storiche di vitale importanza. Nonostante la copertura dell’ONU, quella guerra fu un forte avvertimento lancia-to al mondo: ottenuto l’effet-to, i generali americani non ebbero bisogno di arrivare a Baghdad.

Alcune considerazioni

La prima guerra del Golfo non fu, si badi bene, una “li-bera scelta” tra opzioni equi-valenti e la cui decisione si sia presa dopo una consape-vole analisi economica per “risolvere”, con quel mezzo, problemi economici e sociali su scala mondiale. In genera-le, nessuna guerra (che non siano, ovviamente, le guerre di rapina che hanno caratte-rizzato tutta la fase coloniali-stica del capitalismo) è fatta dal Capitale come cosciente soluzione delle difficoltà sui mercati interni ed esteri. La guerra come prolungamento della politica con altri mezzi è nel DNA del capitalismo ed è anche una risorsa economi-ca di prim’ordine, ma le for-me di ogni specifica guerra si precisano talora all’ultimo momento, emergendo da una serie di tendenze talora anta-goniste. Tuttavia, il conver-gere di una serie di fattori (“nuovi”, ma da noi in larga misura previsti con anni di anticipo) che si presentavano sullo scacchiere interno ed in-ternazionale più o meno si-multaneamente – il crollo dell’URSS, i crescenti con-trasti sui mercati, la necessità bene avvertita nel settore pro-duttivo interno agli USA di prendere iniziative contro ca-pitalismi agguerriti e concor-renti (Germania, Giappone), l’intensificata offensiva di-plomatica nella stessa dire-zione, rinnovate pressioni dei vertici militari, la necessità di cogliere al volo l’occasione di prendere possesso di un centro nevralgico dell’ener-gia mondiale, oltre che di fondamentale importanza geo-strategica in prospettiva futura – tutto ciò doveva por-tare esattamente a quella guerra, in quanto, di fatto, le guerre capitalistiche, hanno sempre una funzione deter-minata; non scoppiano né per caso, né per la “cattiveria” di questo o di quel personaggio illustre, sia esso esponente di una teocrazia assolutista o della forma più evoluta di de-mocrazia rappresentativa.

Tra le due guerre  

Il decennio che segue la prima guerra del Golfo conobbe un progressivo approfondi-mento dei contrasti e un mi-gliore precisarsi delle tenden-ze in atto. 1) Gli USA, che avevano rea-gito alle tensioni interne ed internazionali con una politi-ca sempre più orientata ad un liberismo semi-incontrollato (“reaganomics”) passano ora ad una fase di cauto e mode-rato interventismo statale. I programmi di Clinton si o-rientano verso accresciuti in-terventi assistenziali e previ-denziali; sostengono il rilan-cio dell’industria e, nello stesso tempo, mirano ad una accresciuta aggressività sul mercato mondiale. E’ l’epoca degli accordi NAFTA (Mes-sico-USA-Canada) e GATT (in funzione anti-CEE); della minaccia del blocco totale delle esportazioni giapponesi in USA. 2) Lo scontro tra monete co-mincia a farsi aspro, perché si tratta ora di definire quale moneta debba occupare il ruolo di valuta di riserva mondiale per tutto il sistema capitalistico: questione di pri-maria importanza, dal mo-mento che è su questo terreno che si gioca il destino delle e-sportazioni di merci e di capi-tali. Dopo la rottura unilatera-le degli accordi di Bretton Woods, il dollaro è andato sempre più perdendo nel suo valore di scambio con yen e marco, anche se rimane la moneta più forte per il finan-ziamento internazionale. Chi ha pagato questa svalutazione sono soprattutto Giappone e Germania. 3) Si profila la crisi del Giap-pone, che reagisce con fusio-ni gigantesche fra capitale bancario e capitale industria-le per far fronte alla concor-renza straniera. Ciò comportò una iniziativa diplomatica e commerciale ad ampio rag-gio in tutta l’area asiatica, che si fece ancora più aggressiva dopo la guerra del Golfo con una politica di espansione commerciale anche in Euro-pa. È in questa fase che iniziò a caratterizzarsi un embrione di asse Germania-Giappone, già superiore sul piano eco-nomico, ma non ancora su quello militare, rispetto agli USA. 4) Aumentano le pressioni speculative sulle monete. Dal 1992, a frequenze sempre maggiori, tutte le divise euro-pee sono state sottoposte a turno a forti pressioni specu-lative, anche dovute alla for-za relativa del marco: le varie divise subiscono ondate di vendita per acquistare mar-chi. Le oscillazioni in più o in meno costrinsero i vari go-verni ad alzare i tassi di inte-resse, nel tentativo fallito di contrastare l’aumento della valuta tedesca. Gli USA nel 1994 aumentarono i tassi per cercare di contrastare la di-scesa del dollaro, ma questo provvedimento determinò il ritiro dei capitali, soprattutto dal Messico, precipitando il paese nella crisi. 5) Iniziano le ritorsioni sul dollaro. Dopo la crisi messi-cana, l’OPEC minaccia di sganciarsi dal dollaro sosti-tuendolo col marco. La mi-naccia rientra subito ma, co-me vedremo, questa è un’ar-ma di ricatto estremamente pericolosa per gli USA, che è destinata a rinnovarsi con maggiore intensità in seguito, e probabilmente negli anni futuri. 6) Si fa sempre più forte la corsa alla finanziarizzazione della produzione e la ricerca di ulteriori masse di capitale finanziario. Compaiono i fondi pensione, i fondi di in-vestimento, le assicurazioni, tutti gestiti da grandi gruppi transnazionali la cui attività diventa praticamente incon-trollabile. La speculazione in-vade tutti i settori della finan-za e quindi dell’economia; da qui si trasferisce alla politica, con gli spettacolari scandali che investono governi e mul-tinazionali. 7) Si acuiscono le tensioni di-plomatiche. Alcuni accordi commerciali USA-UE falli-scono, mentre la Germania solleva il problema della gui-da strategica della NATO. Gli USA reagiscono vivacemen-te e si sfiora la rottura col go-verno di Kohl, costretto a pre-sentare le scuse. 8) Mentre comincia ad impo-starsi la questione asiatica, con la Cina sullo sfondo, il decennio scorso sarà ricorda-to come un decennio di guer-re, forse più ancora dei pre-cedenti. La guerra nei Balca-ni è stata, per certi aspetti, u-na prosecuzione di quella del Golfo, ma voluta nel cuore stesso dell’Europa, un’area dove per tradizione ha pasco-lato il capitalismo tedesco e dove erano da lungo tempo svaniti, per necessità più che per desiderio, gli appetiti rus-si. La campagna al riarmo, il rilancio dell’industria milita-re, la longa manus stesa sulle vie di trasporto degli idrocar-buri caucasici verso il Medi-terraneo: questi, e non i prin-cipi di lesa democrazia, stan-no alla base di una guerra che ha ridisegnato l’assetto geo-politico dell’Europa balcani-ca. 9) In conclusione, tutto l’ulti-mo decennio si è sviluppato all’interno di una fase di cro-nica sovrapproduzione mondiale, che ha condotto, tra l’altro, ad una corsa all’im-pazzata alla centralizzazione di capitale e a una serie di gi-gantesche fusioni attraverso l’intero pianeta. Mentre le at-tese sulla new economy sva-nivano nel nulla borsistico, tutto ciò creava una sfrenata euforia dei consumi, che è andata riflettendosi sulla pro-duzione, poi sui profitti, e poi di nuovo sui consumi. È stata una crescita di una domanda artificiale e drogata: drogata essenzialmente dal credito e, pertanto, alla lunga insoste-nibile.

Il quadro entro cui si sviluppa la seconda guerra del Golfo

Nella teoria marxista dell’im-perialismo, è chiaramente di-mostrato come la rendita as-soluta sia creata dal diritto di proprietà; il proprietario – singolo possessore, o Stato imperialista – per ciò stesso si incamera parte del plusvalore totale prodotto. La rendita as-soluta si basa sul diritto mo-nopolistico da parte di alcuni contro tutti gli altri, e garanti-sce larghi profitti ai detentori. Ne consegue che la lotta per il controllo della rendita fon-diaria (e di tutte le altre forme di rendita, tra cui primeggia quella finanziaria) è uno degli elementi fondamentali dell’imperialismo. Se nell’Ottocento la relazione e-ra tra grandi proprietari fon-diari e regioni, oggi è lotta tra gli Stati per la spartizione del pianeta. Le tensioni per accedere a queste fonti si fanno partico-larmente acute quando sono in gioco le risorse energetiche che alimentano l’economia di ogni singolo paese. Dipen-denza dalle materie prime, e quindi necessità di controllar-ne i prezzi (che vanno ad in-cidere sul tasso di profitto), sono le chiavi di volta dell’e-conomia nella fase imperiali-sta. Il controllo delle risorse da parte di ogni singolo paese determina la base per l’ine-guaglianza nello sviluppo in-dustriale; il controllo sui prezzi sta alla base dei diversi saggi di profitto che si realiz-zano nei singoli paesi. Oltre a ciò, va ricordato che la quasi totalità degli scambi nel commercio dei prodotti petroliferi in senso lato è svolta in dollari, in quanto il dollaro è la moneta interna-zionale, e ha garantito fino ad oggi agli USA il ruolo di usu-raio internazionale. La crescente importazione U-SA ha sparso miliardi di dol-lari in tutto il mondo. Questi dollari sono tornati in USA attraverso il mercato obbliga-zionario e dei titoli e hanno bisogno di essere reinvestiti, sia pure ad alto rischio specu-lativo. I primi a rimetterci sa-ranno, naturalmente, gli inge-nui che “hanno fiducia” o i proletari di questa o quell’a-zienda, privata o statale, co-stretti a diventare azionisti della “propria” azienda. Dunque, nell’aumento contro natura del saggio di profitto, c’è non secondario il primato del dollaro come moneta in-ternazionale. E’ un primato sempre più messo in dubbio, così come i rapporti di cam-bio sono peggiorati, nono-stante il legame tra dollaro e prezzi delle materie prime. Il dollaro è divenuto moneta fiduciaria internazionale da quando, con la seconda guer-ra mondiale, la base aurea, il gold standard, è stata sop-pressa. L’oro è stato sostituito dal dollaro; la “garanzia” di quest’ultimo era assicurata dalla vittoria militare del 1945 e dalla successiva e conseguenza penetrazione delle merci americane in tutto il mondo. Ma esso è comun-que «la moneta di uno Stato, e come tale intrinsecamente legata alle fortune di questo. Ne segue che l’avere esteso il dollaro a tutto il mondo come valuta di scambio, significa aver legato indissolubilmente la sorte del mondo a quella degli Stati Uniti»3 e, di con-seguenza, la sorte degli Stati Uniti a quella del mondo. Nell’Ottocento il ruolo del dollaro fu giocato dalla sterli-na, ma allora non poteva esi-stere qualcosa di simile alla attuale rendita finanziaria, perché l’Inghilterra, principa-le paese esportatore, era an-che il principale paese impor-tatore. Oggi, invece, il flusso commerciale tra USA e resto del mondo avviene in un solo senso, poiché essi sono im-portatori assoluti. «I dollari in circolazione finiranno prima o poi per tornare ad esser spe-si in patria, ma le economie degli altri paesi assumono sempre più un carattere di di-pendenza e di artificiosità con tutti i pericoli impliciti nella prospettiva che da un mo-mento all’altro la crisi del dollaro si approfondisca e tra-sformi anche la “valuta forte” per antonomasia in un segno scottante nelle mani di chi lo possiede»4. Oggi, minacciose nubi gravano sul dollaro, e ri-schiano di trasformarlo in “segno scottante” per chi lo possiede: sono le nubi rap-presentate dall’euro. Come può essere dunque mi-surata la “forza” attuale degli USA? Non ci riferiamo, natu-ralmente, alla loro capacità di affermazione militare in Iraq (che comunque, come appare evidente, è assai meno como-da oggi rispetto alla guerra-lampo di aprile). Qui si tratta di ben altro: se cioè questa “forza” non sia più o meno prossima ad esaurire il suo ruolo di traino economico-politico nel quadro dell’im-perialismo mondiale Gli U-SA possono essere ricattati con il gioco delle valute; la loro tecnologia è perlopiù in mano a multinazionali e a compagnie straniere; dipen-dono pesantemente dall’importazione di capitale finan-ziario straniero; non sono in grado di sostenere guerre in tutte le parti del mondo; su-scitano ovunque crescenti vampate di nazionalismo an-ti-americano nei paesi del Terzo Mondo. Gli USA sono innegabilmen-te la prima potenza militare mondiale. Sulla base di que-sta ovvia considerazione si sono troppo spesso fatte con-siderazioni erronee sulle pro-spettive rivoluzionarie. La potenza militare di uno Stato è il riflesso della sua potenza economica reale, e non può essere nient’altro che ciò. La tesi espressa da alcuni, secon-do cui gli USA godrebbero di una sorta di delega interna-zionale (finanziati dal mondo in cambio del “servizio” di polizia internazionale) ha po-tuto avere un senso solo nella fase espansiva dell’ultimo ci-clo imperialistico quando, con la vittoria nella seconda guerra mondiale, gli USA imposero i propri capitali a tutto il mondo. Il problema che si comincia a configurare con sempre crescente chia-rezza è dunque il seguente: quanto a lungo durerà la su-premazia economica (del dollaro, della produzione, sui mercati, nel controllo di gi-gantesche fette di plusvalore internazionale) degli USA sul resto del mondo? E inoltre, quando l’economia interna-zionale mostra segni accele-rati di cedimento, e quando il gioco interimperialistico è ta-le da dover rimettere in di-scussione equilibri che sem-bravano consolidati e rappor-ti che si basavano su una soli-darietà internazionale (tale solo per necessità e non per pii desideri), potrà continuare ad aversi un apparato militare unilaterale “forte” in un mon-do globalmente in crisi?

L’affare della ricostruzione

È una vecchia canzone dei sostenitori dell’imperialismo l’affermazione che questo sa-rebbe “più democratico” ri-spetto al sistema coloniale di cui è figlio, grazie alla rinun-cia ai grandi imperi oltre o-ceano e alla pratica dei “pro-tettorati”. Nella realtà, il si-stema coloniale fu abbando-nato perché troppo costoso quanto a gestione militare e poco affidabile in termini di stabilità sociale. Quale che sia il futuro assetto politico dell’Iraq, esso non potrà più configurarsi secondo gli schemi del passato. L’impe-rialismo ha sostituito il meto-do coloniale basato sull’oc-cupazione militare con quel-lo, ben più remunerativo in termini di economia capitali-stica, del controllo finanzia-rio dei paesi vassalli. Il domi-nio finanziario ha distrutto le frontiere degli imperi più for-ti, ha soggiogato con l’invisi-bile cappio dell’indebitamen-to le economie più deboli, ma, per legge dialettica, le sue stesse leggi si stringono attorno al collo anche di quel-le più forti. I governi locali diventano docili intermediari delle banche degli stati impe-rialisti più forti: che significa, per il secondo dopoguerra, degli USA. Al tempo stesso, lo scontro si fa più acuto pro-prio tra questi, con la pratica dei dazi sulle importazioni, le guerre commerciali sui pro-dotti agricoli e sull’acciaio, ecc. Date queste premesse, che tutti i marxisti riconoscono o-peranti da circa un secolo nell’economia mondiale, si capirà agevolmente come u-no degli obiettivi primari de-gli USA in Iraq dovesse esse-re la banca di Stato irachena, i suoi vertici e i vertici politici strettamente legati a questa, che hanno costituito per de-cenni la gestione del paese sotto il regime canagliesco di Saddam. È stato sostenuto da certa stampa democratica che l’in-tervento USA è motivato dal petrolio tout court, e più pre-cisamente dal fatto che la Ca-sa Bianca è saldamente nelle mani di una lobby che con-trolla alcune importanti com-pagnie petrolifere private. Si sono fatti con molta diligenza i nomi degli uomini politici più vicini a Bush, sottoli-neandone quello che i morali-sti in tricolore definirebbero “conflitto di interessi” all’en-nesima potenza. Si è detto che questa o quella compa-gnia petrolifera americana, i cui vertici sono stati occupati in anni recenti da questo o quell’esponente del governo Bush, stanno realizzando o hanno già da tempo realizza-to grassi contratti. Altri “os-servatori” si sono diligente-mente dedicati alla compila-zione di cartine e diagrammi, dai quali risultava la fregatu-ra per le compagnie non-sta-tunitensi. Che questo possa essere un’arma di ricatto nel-le mani americane nei con-fronti degli “alleati” è una possibilità così ovvia che non perdiamo tempo a commen-tarla. Tuttavia bisogna sotto-lineare con forza che nessuno di questi “alleati” – Germa-nia, Francia, Russia in testa – era contrario per principio al-la guerra in Iraq. Essi sareb-bero stati favorevoli alla guerra alle loro condizioni, che erano quelle di un’equa divisione del bottino; ma era chiaro che, di fronte all’uva acerba, questi stati, con i loro conati di Forza di intervento rapido e le loro miserabili truppe di polizia, non poteva-no giocare altro che il ruolo della volpe delusa. Il bottino era stabilito fin da subito, e non si trattava solo di mettere le mani sul grezzo iracheno. Bisogna dare atto al governo Bush di aver giocato le pro-prie carte senza barare: fin dalla metà di marzo 2003, il dichiarato piano USA consi-ste nella privatizzazione di tutte le società statali irache-ne e nella creazione di una Banca centrale indipendente. Indipendente significa non dipendente dal passato regi-me, proprio quello che all’ini-zio del 2000 aveva pianifica-to la conversione dai dollari all’euro nelle proprie transa-zioni internazionali. Indipen-dente significa dunque inte-ramente dipendente dall’FMI e dalla Banca centrale USA. Ecco dunque che, in una noti-zia riportata con scarsissimo rilievo dalla stampa interna-zionale, il 7 luglio gli USA hanno annunciato la sostitu-zione della moneta irachena e ciò che hanno descritto come una rinnovata banca centrale autonoma5: l’aggregato mili-tare-industriale ai vertici de-gli USA deve imporre all’I-raq un immediato ritorno al dollaro, segnalando a tutti gli stati-canaglia (Iran e Arabia in testa, ma poi Nigeria e Ve-nezuela), e a quelli che, tenta-ti da conversioni all’euro, stanno per entrare nella lista, che a nessuno sarà permesso di uscire dalla sfera del dol-laro. Oltre a questo aspetto, tutta-via, si devono prendere in considerazione altre motiva-zioni, più strettamente legate al petrolio, o di tipo geostra-tegico. Si è calcolato che la produ-zione di un barile di petrolio dalle sabbie arabe può costa-re $1,50; estrarlo dal Golfo del Messico, a causa dei costi elevati delle strutture in mare e del trasporto a terra, $13 o più. Sul mercato internazio-nale un barile è trattato a $22-28. Come si vede la rendita differenziale frutta un fiume di dollari, che è vitale agli USA per coprire il pauroso bu-co nella bilancia dei paga-menti e il deficit del bilancio federale (oltre a quello, be-ninteso, che proviene dagli investimenti di capitali finan-ziari stranieri); ma mentre il primo lascia le mani libere al-le imprese interne, il secondo, di fatto, è la quota con la qua-le imperialismi concorrenti si accaparrano letteralmente pezzi di economia USA. Se queste considerazioni so-no esatte, allora ben si com-prende come l’intera questio-ne irachena rientri in un gioco che ha come confini l’intero pianeta e che trova uno dei suoi punti di forza nel croce-via iracheno, posto tra l’ocea-no – che rimane pur sempre la strada indispensabile alle prue delle petroliere – e il centro-Asia, dove scorrono altre vie, altri oleodotti, altre rendite, e ove si gioca, più o meno mascherato oggi dagli “affari”, più duro domani, il destino degli schieramenti in-terimperialistici futuri. In questa rete di rapporti im-perialistici tra Stati e imprese, quale dev’essere il ruolo del proletariato? È quanto pren-deremo in esame nella secon-da parte di questo articolo.

 


Note:

1La citazione di Engels è dalla sua Introduzione alla prima ri-stampa (1895) di K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, ora in K. Marx, F. Engels, Il 1848 in Germania e in Fran-cia, Ed. Rinascita 1948, pag. 122; quella di Lenin è da L’imperiali-smo, fase suprema del capitalismo, Ed. Rinascita 1956, pag. 12.

2 . Si vedano in particolare i seguenti articoli: «Allarmi per lo stato dell’economia Usa» (n. 1, 1990), «Sulla crisi generale dell’impe-rialismo americano» (n. 4, 1990), «A che cosa approda la “clinto-nomics” » (n. 2, 1993), «Più aggressivo che mai l’imperialismo U-sa» (n 2-3, 1994), «Giappone-Usa, scontro fra monete, scontro fra imperialismi» (n. 3-4, 1995), «Capitalismo senile e incontrollabi-lità dei flussi monetari e finanziari» (n. 5, 1995), «Crisi economi-ca e scienza marxista» (n. 9-10, 1998), «Dietro l’intervento ameri-cano in Iraq» (n. 1, 1999), «L’imperialismo e la lotta per il control-lo delle materie prime» (n. 3 e n. 7-8, 2000), «Corso del capitali-smo: Usa» (n. 9, 2000), «Una nuova prova di forza nella contesa interimperialistica» (n. 3, 2003).

3Cfr. il nostro articolo “Monete nazionali e internazionali”, Pro-meteo, n. 12, gennaio-marzo 1949, pag. 546.

4.Ibid., pag. 547.

5. R.A. Oppel Jr, “Iraqi economy faces key changes”. Internatio-nal Herald Tribune, 8 luglio 2003,