DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Mentre scriviamo, tra metà e fine agosto 2024, si attende da un momento all’altro la risposta iraniana e degli Hezbollah libanesi all’uccisione a Teheran del capo politico di Hamas, Isma’il Haniyeh, da parte dello Stato d’Israele – risposta che potrebbe portare, oltre all’interruzione dei tira-e-molla, per altro inconcludenti, degli incontri fra le parti, anche a un minaccioso allargamento del conflitto in un Medio Oriente sempre più terremotato. Per ora, non sembra che l’Iran sia molto disposto a mettere in campo una reale manifestazione di forza, preferendo limitarsi a demagogiche minacce: ma adesso come adesso le cose sono fluide e bisognerà vedere come evolvono, senza lanciarsi in rocambolesche previsioni geo-politiche. Intanto, però, prosegue incessante la carneficina dei proletari palestinesi, selvaggia e indifferente a qualunque indignazione, protesta umanitaria o retorica dichiarazione degli altri briganti internazionali: i morti s'aggirano ormai intorno ai 40mila, ma infinitamente più numerose e devastanti saranno le conseguenze future, letali e fisico-psicologiche, di quest'osceno genocidio, tipico del capitalismo nella sua fase imperialista (com’è facile dimenticarsi dei milioni di proletari, civili e militari, massacrati in due macelli mondiali e nelle centinaia di “guerricciole” che li hanno preceduti, accompagnati e seguiti!).

Quanto alle manifestazioni “Pro-Palestina”, che nei mesi scorsi si sono moltiplicate e diffuse un po' in tutto il mondo, a parte la rituale mega-dimostrazione pre-elettorale in occasione della Convention Democratica di Chicago, sembrano languire: gli studenti universitari sono in vacanza e la mobilitazione delle comunità palestinesi all'estero, pur non calando di numero, resta sempre ingabbiata dentro una fallace prospettiva “nazionalista” (non parliamo poi dei sedicenti compagni di strada delle metropoli di più antico imperialismo, i “resistenti duri e puri”, che, in maniera irresponsabile, non fanno altro che esaltare e alimentare quella prospettiva, confermandosi “codisti della più bell'acqua”... a voler essere carini!).

In questo contesto, e dopo aver trattato più volte nel corso degli anni la “questione medio-orientale” sulla nostra stampa e nei nostri interventi e volantini, è utile esaminare più da vicino origini, natura e realtà politica del principale “attore” palestinese, cui si sono subordinate, in tutti questi mesi, anche le altre formazioni “resistenti”, comprese quelle che si proclamano “marxiste-leniniste” (!): per l’appunto, Hamas 1.

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Quando, all’epoca della Prima Intifada (1987), dai Fratelli Musulmani egiziani si stacca il gruppo palestinese denominato “Movimento della resistenza islamica” o Hamas, si può dire che giunga a provvisorio compimento un processo durato alcuni decenni: bisognerà ripercorrerlo brevemente, per comprendere il senso profondo delle dinamiche che hanno portato all’emergere del gruppo (in gran parte l’abbiamo già fatto nell’articolo “I proletari palestinesi nella tagliola infame del nazionalismo”, uscito sul n.2/2024 de il programma comunista).

Bisogna cioè tornare agli anni dell’immediato secondo dopoguerra, quando maturano i vari movimenti di de-colonizzazione investendo soprattutto (ma non solo) la riva sud del Mar Mediterraneo e dintorni, dall’Algeria all’Egitto e alla Penisola arabica. In Egitto, in particolare, si assiste in quegli anni all’emergere di una forza politica laica, espressione di una borghesia locale che s’illude e illude di poter mettere in discussione lo status quo e i rapporti internazionali post-coloniali. L’ideologia del panarabismo, che ha in Nasser il principale rappresentante, rompe con la retrograda e corrotta monarchia di re Faruk, limitandosi però a formulare la chimerica visione di un’unica “Nazione Araba” affratellante tutti i “popoli” di lingua, storia, tradizioni, e pretesi interessi comuni in opposizione a quelli delle vecchie potenze coloniali e degli imperialismi ora dominanti (Stati Uniti in primis, ma anche Gran Bretagna e Francia): obiettivo illusorio perché affidato non a una generale mobilitazione rivoluzionaria delle masse arabe ma ad accordi fra Stati della regione, tutti ben gelosi della propria fetta di “rendita petrolifera” da mercanteggiare con i principali ladroni internazionali. Il fallimento del panarabismo, laico e borghese, sarà dovuto essenzialmente, oltre che alla ferma opposizione degli imperialismi interessati a mantenere comunque il Medio Oriente in uno stato di sudditanza economica e strategica, alla pusillanimità e alla tendenza al compromesso delle altre borghesie arabe 2.

Nel frattempo, però, pur fra alti e bassi e sempre fortemente condizionato dagli interessi imperialisti, è avanzato il processo di capitalistizzazione dell’area e, con esso, lo sviluppo, in tutti i segmenti nazionali, di un moderno proletariato, concentrato soprattutto (ma non solo) intorno ai poli di sfruttamento, lavorazione e distribuzione del petrolio e di altre materie prime energetiche, di importanza centrale per un capitalismo dapprima in fase espansiva e poi, a partire dagli anni ’70, in disperato affanno. Come controllare questo proletariato di cui la borghesia non può fare a meno, ma di cui, al contempo, nutre un comprensibile terrore nato da un’esperienza secolare? Al fallimento del laicismo incarnato inizialmente dalle giovani forze militari protagoniste delle lotte anticoloniali, a volte anche con pretese e fraseologia pseudo-socialista, dovrà subentrare un’altra forma di controllo, ancor più profondo e capillare: quello esercitato dal fondamentalismo religioso, che oltre tutto, nella varietà delle interpretazioni del Testo Sacro (il Corano), si presta ad adattarsi alle esigenze locali di frazioni borghesi e piccolo-borghesi che non esitano a riesumare e sfruttare a questo fine anche quanto rimane di vestigia socio-culturali precapitalistiche.

Non si tratta certo di un “piano” definito a tavolino, di un “complotto” di questa o quella borghesia locale o internazionale, ma di una dinamica materiale, che affonda le radici nella storia post-coloniale di un Medio Oriente costretto a dibattersi ancora fra arretratezza storica prodotta dalla lunga fase di becero dominio coloniale e attuale spietato strangolamento da parte dell’imperialismo mondiale. E le vicende drammatiche dell’Algeria (la sua aspra guerra d’indipendenza e il travagliato dopoguerra, con l’emergere e l’affermarsi a livello politico, attraverso una sanguinosa guerra civile, del fondamentalismo religioso) sono un emblema di questa dinamica. Ma qualcosa di simile avviene in Egitto, nel periodo post-nasseriano.

Qui, infatti, agisce da tempo il movimento della Fratellanza Musulmana, nato nei tardi anni ’20 del ‘900 (è bene tenere presente questa data) intorno alla predicazione di Hassan Al-Banna, sostenitore di un ritorno all’Islam originario, principio onnicomprensivo decontaminato da ogni scoria e deviazione. Via via, il movimento di Al-Banna si struttura in maniera gerarchica e sviluppa una propria rete capillare e solidissima di istituzioni caritatevoli e assistenziali, di strutture di educazione e informazione, di servizi sanitari, sindacati, gruppi giovanili e femminili – una sorta di welfare a base confessionale, pienamente in linea con il dettato islamico. Non solo: espressione di classi medie emergenti, il movimento entra con decisione nel mondo dell’economia e della finanza, con imprese, società per azioni, iniziative di vario genere, e ramificazioni importanti in altri paesi arabi. Inoltre, visto che agisce in pieno e oppressivo mandato britannico (e, in seguito, sotto i regimi amici-nemici di re Faruk prima e di Nasser poi) e che per tutti gli anni ’30 si sono susseguiti duri scioperi, ripetute manifestazioni, scontri e violenta repressione (la Thawra, la Grande Rivolta Araba del 1936-37) si dà una struttura militare semi-clandestina. Dopo il 1945 e soprattutto dopo la Nakba del 1947 (la nascita dello Stato d’Israele, con l’immediata benedizione, fra gli altri, della Russia staliniana), la Fratellanza è presente anche in Palestina, dove contribuisce in maniera decisiva allo sviluppo e al rafforzamento, sul piano militare, del movimento anti-sionista, da tempo attivo in loco.

Non staremo qui a seguire tutte le vicende della Fratellanza 3. Ma importa ed è urgente sottolineare due aspetti. Prima di tutto, è evidente per noi comunisti che, con essa, ci troviamo di fronte a un movimento confessionale, portatore di un’ideologia reazionaria, essenzialmente anti-proletaria e anti-comunista, come tutte le religioni e i movimenti che se ne fanno espressione e portavoce. Questo va sottolineato, ripetuto e tenuto ben presente. Dapprincipio, la Fratellanza non intende porsi come soggetto politico: per i suoi ideologi, la dimensione religiosa contiene già di per sé quella politica. Ma ben presto, a fronte della situazione in Palestina, con la creazione dello Stato d’Israele con funzione di gendarme armato e longa manus dell’imperialismo occidentale nell’area, e la conseguente risposta istintiva da parte delle masse arabe proletarie e in via di proletarizzazione, scacciate dalla regione o sottoposte a un giogo sempre più oppressivo, la dimensione più strettamente politica emerge e si afferma, intrecciandosi e identificandosi con quella religiosa – caratteristica poi ereditata, ampliata e intensificata, da Hamas, fin da quando nasce, per l’appunto nel 1987, ispirato dalla predicazione di Ahmed Yassin, che riprende direttamente quella di Al-Banna.

La Fratellanza e poi Hamas svolgono quindi un ruolo specifico: ma sempre (questo il secondo aspetto) come espressione di classi borghesi e piccolo-borghesi emergenti e ormai emerse e, di conseguenza, di un nazionalismo confessionale che, nel quadro generale dell’imperialismo e di una crisi mondiale del modo di produzione capitalistico, deve ricorrere anche alle armi per affermarsi, riprendendo una strategia ormai da tempo abbandonata dalla corrotta e compromissoria politica dell’Olp di Yasser Arafat e dell’Autorità Nazionale Palestinese (in particolare, le Brigate Ezzedin al-Qassam, braccio militare di Hamas, ereditano, proseguono e ammodernano l’esperienza delle strutture armate clandestine della Fratellanza). Lo scontro con lo Stato di Israele e con le sue spietate manifestazioni di oppressione e repressione, di quotidiana, scatenata aggressione da parte sia delle forze militari sia delle forze extra-legali costituite dai coloni israeliani armati, non fa che acuire questa prospettiva, spingendo in primo piano una “resistenza” che si nutre ampiamente e cinicamente della sofferenza e dell’esasperazione delle masse proletarie palestinesi – e ciò nell’indifferenza pressoché totale da parte degli altri Stati arabi, nella perdita progressiva di qualunque visione internazionale della lotta al capitalismo e nella complicità di tutti coloro che, sul posto e internazionalmente, hanno abdicato a qualunque ruolo direttivo rivoluzionario, non importa quanto minoritario e contro corrente possa oggi apparire.

Scrivevamo nel 2015: “Israele in quanto Stato [...] è una formazione politica europea di carattere e origine perfettamente borghese: ma, in quanto sovrastruttura, condivide la stessa ideologia reazionaria di quelle islamica e cattolica. Gli scopritori di presunti elementi progressivi e rivoluzionari nella religione islamica (quanti neo-convertiti!) dimenticano che una vera e propria borghesia rivoluzionaria in Medio Oriente non è mai esistita, che le borghesie venute alla luce e importate in Medioriente hanno fatto il loro tempo e che oggi non è rimasta alcuna traccia dell’anticolonialismo e del panarabismo della fine degli anni ’50 del secolo scorso, falliti entrambi. E che la stessa rivendicazione nazionale palestinese, nei primi anni ’70 del ‘900 (leva, un tempo, di un possibile processo ‘rivoluzionario’), si è realizzata in quel miserabile bantustan in cui tutte le forze politiche palestinesi, laiche e religiose, giocano al massacro reciproco e soprattutto a quello del proletariato, dopo averlo spinto in quel vicolo cieco. Leggere dunque nel panislamismo in tutte le sue varianti attuali una testa d’ariete che tenti di attaccare la fortezza imperialista (un Bin Laden, un Isis, ad esempio) e quindi spingere ancora il proletariato mediorientale a un’alleanza con la miserabile borghesia araba, fanatica o laica, violenta o pacifista, è puramente demenziale” 4.

A questo punto, il discorso va ampliato e deve riportarci di nuovo indietro nel tempo.

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Nel settembre del 1920, su iniziativa dell’Internazionale Comunista (IC) e a poche settimane dal suo importante Secondo Congresso (il punto più alto, prima della degenerazione a opera dello stalinismo nascente e poi vittorioso), si tiene a Baku (Azerbaigian) il primo Congresso dei Popoli d’Oriente. Vi intervengono Zinoviev, Radek, Bela Khun, Alfred Rosmer, John Reed e altri militanti comunisti europei e asiatici e vi partecipano 1891 delegati da 26 paesi e regioni, compresa la Palestina (allora sotto protettorato britannico) 5. Nell’entusiasmo generale per la nuova prospettiva che potrebbe aprirsi (di fusione fra guerra di classe proletaria nell’Occidente e moti rivoluzionari anti-coloniali in Oriente, sotto la guida dell’IC), si susseguono interventi in tutte le lingue, vengono presentate mozioni e discusse proposte d’azione, che nella sostanza riprendono le “Tesi sulla questione nazionale e coloniale”, approvate per l’appunto al Secondo Congresso. È centrale, in quelle “Tesi” e in tutti gli interventi dei militanti comunisti presenti a Baku, la rivendicazione del ruolo primario del partito politico rivoluzionario nel campo delicato dei moti rivoluzionari anti-coloniali, in cui questione nazionale, questione coloniale e questione agraria s’intrecciano strettamente, anche per il ritardo storico di molte di queste aree, per la sopravvivenza in esse di elementi feudali e/o precapitalistici e di forze sociali e politiche che ne sono espressione specie sotto forma religiosa, e per lo spietato gioco e giogo degli imperialismi occidentali – tutte questioni che potevano essere sciolte solo grazie al radicamento di partiti comunisti in Oriente e alla rivoluzione di classe in Occidente 6.

Proprio nel corso di quei decisivi anni ’20 e del drammatico decennio successivo, questa gigantesca prospettiva sarà via via dimenticata, deviata e infine completamente ribaltata a opera dello stalinismo, forma acuta e ulteriormente degenerata di menscevismo: ossia, di codismo nei confronti delle borghesie locali (Cina 1927!) e di sempre più totale sottomissione a una prospettiva nazionale, di subordinazione agli interessi nazionali di questo o quello Stato – le “vie nazionali al socialismo” non sono certo una specialità europea! Così, il concetto stesso di società divise in classe e dunque la necessità storica della guerra di classe per l’abolizione delle classi e il comunismo, ripiegano sullo sfondo. E ciò avviene proprio mentre, nell’area calda del Medio Oriente, si rafforza (i due “fenomeni” sono dialetticamente intrecciati) il ritorno all’islamismo radicale e a una visione esclusivamente nazionale. Non è una semplice coincidenza che la predicazione islamica di Al-Banna si diffonda con sempre maggior intensità ed efficacia proprio nel corso di quegli anni, culminando per l’appunto nella fondazione della Fratellanza Musulmana nel 1928. Come non è un caso che, nel corso degli anni ’30, attraversati in Palestina da continue e aspre lotte contro l’oppressione da parte del protettorato britannico, la prospettiva internazionalista lasci il posto a una visione strettamente nazionale e alla disillusione nei confronti della politica staliniana scambiata per socialismo o addirittura comunismo 7. In seguito (e siamo già nel 1979) la “rivoluzione islamica” iraniana e l’istituzione dello Stato confessionale di Khomeyni e successori avranno il loro peso proprio in questo senso. Infine, a consolidare la presa di Hamas sulla popolazione palestinese, sopraggiunge pure la sconfitta delle cosiddette “primavere arabe” tra il 2010 e il 2012, nate da una spinta marcatamente proletaria, ma presto incanalate nei binari morti di rivendicazioni piccolo-borghesi.

A fronte di questa situazione, qui schematicamente ricordata, noi abbiamo sempre mostrato come la prospettiva della “doppia rivoluzione” prospettata dalle “Tesi sulla questione nazionale e coloniale” nel 1920 si sia chiusa intorno alla metà degli anni ’70 del ‘900, sostanzialmente in concomitanza con l’esaurirsi del ciclo economico espansivo del secondo dopoguerra e l’apertura della fase di crisi di sovrapproduzione di merci e capitali, in cui, fra alti e bassi, siamo tuttora immersi. A partire da allora, le “questioni nazionali” ancora irrisolte hanno perso il loro potenziale slancio rivoluzionario e sussistono solo come residui e cancrene che infettano il corpo del proletariato internazionale, con il contributo decisivo di tutti i “trasportatori d’infezione” agenti nelle principali metropoli imperialiste, e che possono essere superate e cancellate solo dalla lotta proletaria rivoluzionaria pura e aperta, diretta contro tutti gli Stati nazionali, contro tutti gli imperialismi, sotto la guida del partito rivoluzionario 8. L’approccio mistico-religioso prende dunque il posto della prospettiva comunista, il nazionalismo dell’internazionalismo: ragione per cui, porsi sul terreno di rivendicazioni nazionali e costruire intorno a esse il proprio programma d’azione, per di più abbondantemente nutrito di ideologia religiosa, significa fare opera apertamente anti-proletaria e controrivoluzionaria.

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Torniamo ora ad Hamas. Naturalmente, poiché non facciamo opera blandamente storiografica, non staremo a riproporre le vicende e vicissitudini che hanno contraddistinto la sua storia: le caratteristiche del welfare da esso praticato come evoluzione di quello della Fratellanza musulmana, la composizione sociologica della sua leadership e del “governo dei professori” inaugurato dopo le elezioni vittoriose del 2006 con un programma emblematicamente intitolato “Riforma e cambiamento”, il problema dei rapporti interni fra ala politica e ala militare, e fra centro estero, centro interno e detenuti, le continue ambiguità rispetto alla “questione Israele” e i confini da rivendicare, le origini e il significato dello scontro con l’OLP e l’ANP, e via di seguito. Per questo, rimandiamo ai testi indicati all’inizio: ci limitiamo invece all’analisi di alcuni documenti chiarificatori. Ma, prima di tutto, sia chiaro che la nostra critica aperta non va alle migliaia di proletari palestinesi che, spinti dalla rabbia e dalla sofferenza e trascinati dalle parole e dagli atti roboanti, hanno deciso, aderendo a questa o quella organizzazione “resistente”, di prendere in una mano il proprio destino e nell’altra il fucile. La nostra critica va, come sempre, alle organizzazioni che li hanno convinti, inquadrati e diretti verso obiettivi che non sono, non devono essere, i loro.

Partiamo dunque dallo Statuto del 1988 (il Mithaq), il documento di Hamas “più discusso, citato, condannato e utilizzato – molte volte – come strumento di contrattazione politica” (Caridi, p.114), e comunque rimasto punto di riferimento costante. In esso, fin dall’invocazione iniziale (“In nome di Allah, il Clemente, il Misericordioso”), l’impianto mistico-religioso s’intreccia strettamente con quello politico (ogni articolo è accompagnato da una citazione dal Corano). L’Articolo 1 proclama dunque: “La base del Movimento di resistenza Islamico [Hamas] è l’islam. Dall’islam deriva le sue idee e i suoi precetti fondamentali, nonché la visione della vita, dell’universo e dell’umanità; e giudica tutte le sue azioni secondo l’islam, ed è ispirato dall’islam a correggere i suoi errori”; e: “Dio come scopo, il Profeta come capo, il Corano come costituzione, il jihad come metodo, e la morte per la gloria di Dio come più caro desiderio” (Articolo 2) 9. Quando poi, da questi e altri proclami, si passa al Capitolo III (“Strategie e mezzi”), ecco che vi si afferma: “Il Movimento di Resistenza Islamico crede che la terra di Palestina sia un sacro deposito (waqf), terra islamica affidata alle generazioni dell’islam fino al giorno della resurrezione. Non è accettabile rinunciare ad alcuna parte di essa. Nessuno Stato arabo, né tutti gli Stati arabi nel loro insieme, nessun re o presidente, né tutti i re e presidenti messi insieme hanno il diritto di disporre o di cedere un singolo pezzo di essa, perché la Palestina è terra islamica affidata alle generazioni dell’islam sino al giorno del giudizio […]. Questa è la regola nella legge islamica (shari’a) e la stessa regola si applica a ogni terra che i musulmani abbiano conquistato con la forza, perché al tempo della conquista i musulmani la hanno consacrata per tutte le generazioni dell’islam fino al giorno del giudizio. […] La proprietà della terra da parte del singolo proprietario va solo a suo beneficio, ma il waqf durerà fino a quando dureranno i Cieli e la Terra” (Articolo 11) 10.

Si afferma così il nazionalismo politico-religioso. E infatti: “Secondo il Movimento di Resistenza Islamico [Hamas – NdR], il nazionalismo è parte legittima del suo credo religioso. Nulla è più vero e profondo del nazionalismo che combattere un jihad contro il nemico e affrontarlo a viso aperto quando mette piede sulla terra dei musulmani. Questo diventa un obbligo individuale per ogni uomo e donna musulmani: alla donna è permesso [!!!] combattere il nemico anche senza l’autorizzazione del marito [!!!], e allo schiavo [!!!] senza il permesso del padrone [!!!]” (Articolo 12). Donna e schiavo: questione femminile e questione proletaria sono sistemate!

Più avanti, poi, parlando dell’“invasione ideologica degli orientalisti e dei missionari” da contrastare con ogni mezzo ideologico da parte deli ‘ulama, dei professori, dei maestri, degli uomini della pubblicità e dei mezzi di comunicazione, dei dotti, della giovinezza dei movimenti islamici e dei loro docenti, si dichiara che “L’invasione dell’ideologia prepara la strada all’invasione imperialista [!!!]”. E ancora: “L’imperialismo ha aiutato l’avanzata dell’invasione ideologica e ha reso più profonde le sue radici; e continua a farlo. Tutto questo ha portato alla perdita della Palestina […] Dobbiamo instillare nelle menti di generazioni di musulmani l’idea che la causa palestinese è una causa religiosa e deve essere affrontata su queste basi” (Articolo 15). E così anche il materialismo storico è sistemato!

Di conseguenza, va affrontato il problema di offrire alle giovani generazioni “un’educazione islamica fondata sull’applicazione dei nostri precetti religiosi” (Articolo 16). E, prima di passare alle sezioni intitolate “Il ruolo dell’arte islamica nella guerra di liberazione” e “Solidarietà sociale”, ecco quella, più specifica, intitolata “Il ruolo della donna musulmana”: la donna, nella guerra di liberazione, “ha un ruolo non minore di quello dell’uomo musulmano” in quanto “forgiatrice di uomini” (Articolo 17). E soprattutto (udite! udite!): “La donna, nella casa e nella famiglia combattenti, si tratti di una madre o di una sorella, ha il suo ruolo più importante nell’occuparsi della casa e nell’allevare i figli secondo i concetti e i valori islamici […] Le donne debbono avere la consapevolezza e le conoscenze necessarie per gestire la loro casa. La frugalità e la capacità di evitare gli sprechi nelle spese domestiche sono requisiti necessari perché ci sia possibile continuare la lotta nelle difficili circostanze in cui ci troviamo” (Articolo 18). Insomma: “Dio, Patria, Famiglia!” 11.

Nazionalismo religioso equivale a “lotta al laicismo”. Infatti, trattando (Articolo 27) del rapporto con l’OLP, che allora (1988) “ci è più vicina di ogni altra organizzazione”, si dice che “l’OLP ha adottato l’idea di uno Stato laico, ed ecco quello che ne pensiamo. L’ideologia laica è diametralmente opposta al pensiero religioso. Il pensiero è la base per tutte le posizioni, i modi di comportamento e le decisioni. Pertanto, nonostante il nostro rispetto per l’OLP – e per quello che potrà diventare in futuro [corsivo nostro – NdR] – e senza sottovalutare il suo ruolo nel conflitto arabo-israeliano, ci rifiutiamo di servirci del pensiero laico per il presente e per il futuro della Palestina, la cui natura è islamica”. E ciò perché “Hamas è, definitivamente e irrevocabilmente, una fonte di aiuto e di assistenza per esse [le correnti nazionaliste che operano nell’arena palestinese per la liberazione della Palestina], nella parola e nell’azione, nel presente e nel futuro. È qui per unire, non per dividere; per conservare, non per disperdere; per mettere insieme, non per frammentare” (Articolo 26).

Nazionalismo e unità del popolo vanno a braccetto, come sempre, nell’ideologia democratica e interclassista, e dunque – necessariamente – anti-proletaria e anti-comunista. Non è una nostra interpretazione. Poco sopra (Articolo 22), in una spregiudicata analisi storico-politica, si afferma, e a questo punto vale la pena di citare integralmente il testo:

“Il nemico ha programmato per lungo tempo quanto è poi effettivamente riuscito a compiere, tenendo conto di tutti gli elementi che hanno storicamente determinato il corso degli eventi. Ha accumulato una enorme ricchezza materiale, fonte di influenza che ha consacrato a realizzare il suo sogno. Con questo denaro ha preso il controllo dei mezzi di comunicazione del mondo, per esempio le agenzie di stampa, i grandi giornali, le case editrici e le catene radio-televisive. Con questo denaro, ha fatto scoppiare rivoluzioni in diverse parti del mondo con lo scopo di soddisfare i suoi interessi e trarre altre forme di profitto. Questi nostri nemici erano dietro la Rivoluzione francese e la Rivoluzione russa [ !!!], e molte delle rivoluzioni di cui abbiamo sentito parlare, qua e là nel mondo. È con il denaro che hanno formato organizzazioni segrete nel mondo, per distruggere la società e promuovere gli interessi sionisti. Queste organizzazioni sono la massoneria, il Rotary Club, i Lions Club, il B’nai B’rith, e altre. Sono tutte organizzazioni distruttive dedite allo spionaggio. Con il denaro, il nemico ha preso il controllo degli Stati imperialisti e li ha persuasi a colonizzare molti paesi per sfruttare le loro risorse e diffondervi la corruzione. A proposito delle guerre locali e mondiali, ormai tutti sanno che i nostri nemici hanno organizzato la Prima guerra mondiale per distruggere il Califfato islamico. Il nemico ne ha approfittato finanziariamente e ha preso il controllo di molte fonti di ricchezza; ha ottenuto la Dichiarazione Balfour, e ha fondato la Società delle Nazioni come strumento per dominare il mondo. Gli stessi nemici hanno organizzato la Seconda guerra mondiale, nella quale sono diventati favolosamente ricchi grazie al commercio delle armi e del materiale bellico, e si sono preparati a fondare il loro Stato. Hanno ordinato che fosse formata l’Organizzazione delle Nazioni Unite, con il Consiglio di Sicurezza all’interno di tale Organizzazione, per mezzo della quale dominano il mondo. Nessuna guerra è mai scoppiata senza che si trovassero le loro impronte digitali.

“‘Ogni volta che accendono un fuoco di guerra, Allah lo spegne. Gareggiano nel seminare il disordine sulla Terra, ma Allah non ama i corruttori’ (Corano 5, 64).

“I poteri imperialisti sia nell’Ovest capitalista sia nell’Est comunista sostengono il nemico con tutta la loro forza, in termini materiali e umani, alternandosi in questo ruolo. Quando l’islam si risveglia, le forze della miscredenza si uniscono per combatterlo, perché la nazione dei miscredenti è una.

“‘O voi che credete, non sceglietevi confidenti al di fuori dei vostri, farebbero di tutto per farvi perdere. Desidererebbero la vostra rovina; l’odio esce dalle loro bocche, ma quel che i loro petti secerne è ancora peggio. Ecco che vi manifestiamo i segni, se potete comprenderli’ (Corano 3, 118).

“Non è invano che il verso precedente finisce con le parole di Allah: ‘se potete comprenderli’”.

E così, anche l’Ottobre bolscevico è sistemato! E dove si troverebbe la… prova provata di quanto si afferma in quell’Articolo? È presto detto (Articolo 32): “lo schema sionista non ha limiti, e dopo la Palestina cercherà di espandersi dal Nilo all’Eufrate. Quando avrà digerito la regione di cui si è cibato, guarderà avanti verso un’ulteriore espansione, e così via. Questo è il piano delineato nei Protocolli dei Savi di Sion, e il comportamento presente del sionismo costituisce la migliore testimonianza di quanto era affermato in quel documento”. Volevamo ben dire! Come analisi dell’imperialismo non c’è male! Povero Marx, povero Lenin!

Ma fermiamoci qui per ciò che riguarda lo “Statuto” del 1988 e facciamo un salto di quasi trent’anni, al maggio 2017: in mezzo, ci sono stati, oltre alla Prima e alla Seconda Intifada, la vittoria di Hamas alle elezioni del 2006 con la lista “Riforma e cambiamento”; l’anno dopo, lo scontro militare con Fatah per il controllo della Striscia; nel 2008, la micidiale operazione israeliana denominata “Piombo fuso”; le successive “operazioni” dai nomi più svariati... Sempre, l’incessante stillicidio di assassini di proletari palestinesi.

Il “Documento di principi e politiche generali” che Hamas produce in quell’anno 2017 intende superare lo “Statuto” del 1988 senza smentirlo, tenendo anche conto del ruolo nuovo rivestito in Palestina, con il controllo della Striscia di Gaza. In questo senso, si pone in maniera più direttamente politica, da forza politica al governo: ma il legame stretto fra Palestina e Islam rimane ed è rivendicato praticamente in ciascuno dei 42 articoli che compongono il “Documento”, fin dal preambolo dove si proclama che “la Palestina è una terra il cui status viene elevato dall’Islam”. E ancora: “Il suo [di Hamas] quadro di riferimento è l’Islam, che determina i suoi principi, obiettivi e mezzi” (Articolo 1); “La Palestina è una terra araba islamica. È una sacra terra benedetta che ha un posto speciale nel cuore di ogni arabo e di ogni musulmano” (Articolo 2), “La Palestina è la Terra Santa, con cui Allah ha benedetto l’umanità” (Articolo 7), e via di seguito 12.

Ma per il resto il Documento insiste sul proprio carattere di testo politico che “rivela gli obiettivi, le pietre miliari e il modo in cui si può attuare l’unità nazionale”, con un “linguaggio prossimo a quello della democrazia occidentale” (Mantovani, cit.). Unità nazionale, dunque: come qualunque altro proclama borghese (costituzione o simili) che rifiuta di ammettere la realtà di società divise in classi. Forse che, nella Palestina di oggi e di un domani diverso, le classi non esistono o esisteranno? “Il popolo palestinese è un unico popolo, composto da tutti i Palestinesi, dentro o fuori la Palestina, indipendentemente dalla loro religione [???], cultura o affiliazione politica” (Articolo 6). Per il resto, incontriamo le stesse formulazioni che possiamo trovare in qualunque presa di posizione di borghesissimi organi internazionali: chi non si proclama difensore dei “valori della verità, della giustizia, della libertà e della dignità”, contro “ogni forma di estremismo religioso o etnico e bigottismo” (Articolo 9)?

E ancora: quando si afferma che “La causa palestinese è la causa di una terra occupata e di un popolo sradicato. Il diritto dei rifugiati e degli sfollati palestinesi di tornare alle loro case da cui sono stati banditi o a cui è loro proibito di tornare – che siano le terre occupate nel 1948 o nel 1967 (vale a dire, l’intera Palestina) è un diritto naturale, tanto individuale quanto collettivo. Questo diritto è confermato sia da tutte le leggi divine sia dai principi basilari dei diritti umani e della legge internazionale” (Articolo 12); o quando si dice che “l’istituzione di ‘Israele’ […] è in violazione dei diritti umani garantiti dalle convenzioni internazionali, fra cui il principale è il diritto all’auto-determinazione” (Articolo 18); insomma, quando si afferma tutto ciò e più volte si torna a invocare “le leggi divine e le normative e leggi internazionali” (Articolo 25 e altri), è proprio necessario commentare che qui siamo nell’empireo rosato dell’idealismo puro? Diritti umani, legge internazionale? Ma quali, dentro l’inferno delle nazioni capitalistiche?!

E poi si presenta la società palestinese come “arricchita da personalità prominenti, figure, dignitari, istituzioni della società civile, e giovani, studenti, sindacalisti e gruppi di donne che lavorano insieme per il raggiungimento di obiettivi nazionali e costruzione sociale, che perseguono la resistenza e conquistano la liberazione” (Articolo 33). Torna dunque l’immagine forte dell’unità nazionale, con parole che possono evocare quelle del CLN italiano datato 1943! Infatti, si rivendicano “solidi principi democratici, primo fra tutti libere e giuste elezioni” (Articolo 30), e si afferma la disponibilità di Hamas a “cooperare con tutti gli stati che sostengono i diritti del popolo palestinese” (Articolo 37), rivendicando che “l’istituzione di uno Stato pienamente sovrano e indipendente, con Gerusalemme capitale lungo le linee del 4 giugno 1967, con il ritorno dei rifugiati e degli sfollati alle case da cui sono stati cacciati è una formula di consenso nazionale” (Articolo 20). Nel pragmatismo tipico di formazioni borghesi, si sorvola anche sulla questione più volte dibattuta e fonte di incessanti polemiche (oltre che di ulteriori sofferenze per i proletari palestinesi) “Due Stati” e/o “Distruzione di Israele”, sebbene si dica che “Hamas respinge qualunque alternativa alla piena e completa liberazione della Palestina, dal fiume al mare” (Articolo 20)…

È vero che, come si diceva sopra, il “Documento” 2017 dovrebbe prendere il posto dello “Statuto” 1988 (se non abrogarlo). Ma l’imprinting resta, ed è quello di un movimento confessionale espressione di classi borghesi e piccolo-borghesi nazionali, che fa ampio ricorso a una fraseologia mistico-religiosa e reazionaria (cioè anti-proletaria e anti-comunista), chiudendo così la giusta e ben comprensibile rabbia di masse proletarie che da quasi ottant’anni subiscono e combattono violenza e sfruttamento da parte dello Stato d’Israele dentro la tagliola infame di un nazionalismo fine a se stesso e senza prospettive reali.

Ci possiamo fermare qui, per quanto riguarda i documenti programmatici di Hamas, del 1988 e del 2017. Due parole vanno però dette ancora, a proposito della “Dichiarazione congiunta rilasciata da Hamas, Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, Movimento della Jihad Islamico Palestinese, Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina e Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina-Comando Generale”, il 28/12/2023, cioè poche settimane dopo l’azione diretta da Hamas contro Israele del 7 ottobre – dichiarazione congiunta che non ci risulta essere mai stata ritrattata e che la dice lunga anche sulla subordinazione ad Hamas di formazioni che si presentano come… marxiste-leniniste! Qui, oltre alla dominante prospettiva nazionale, con la rivendicazione dei “legittimi diritti nazionali del nostro popolo” e della “creazione di uno stato indipendente con Al Quds come capitale”, al punto 3 si elencano, fra i “compiti di combattimento e di lotta diretti e immediati da raggiungere”, “l’impegno arabo, islamico e internazionale per la ricostruzione e [la] richiesta ai paesi fraterni e amici e alle organizzazioni internazionali e regionali, tra cui soprattutto la Lega araba, l’Organizzazione per la cooperazione islamica e le Nazioni Unite [!!!] di lanciare un’iniziativa internazionale per ricostruire ciò che l’occupazione e l’aggressione barbarica hanno distrutto nella Striscia di Gaza e di lavorare seriamente per riportare la vita nelle arterie della Striscia” (corsivi nostri). Da allora sono passati ormai otto mesi, il genocidio non s’è mai fermato, la distruzione generalizzata è proseguita in maniera impressionante e – almeno mentre scriviamo – non ci sono indicazioni che possa arrestarsi entro breve. E non dubitiamo che “le organizzazioni internazionali e regionali” citate sopra (e soprattutto le Nazioni Unite!) stiano attendendo con cupidigia il momento per avventarsi sulla Striscia per fare i loro migliori affari – come sempre hanno fatto!

Più oltre, poi, ai punti 1 e 2 dei “suggerimenti a tutti i partiti del movimento nazionale palestinese e alle sue componenti”, oltre a “Chiedere un incontro nazionale globale che includa tutte le parti”, si avanza la proposta di “presentare una soluzione nazionale palestinese basata sulla formazione di un governo di unità nazionale che emerga da un ampio consenso nazionale che includa tutti i partiti, responsabile dell’unificazione delle istituzioni nazionali nelle terre occupate in Cisgiordania e nella Striscia, assumendosi la responsabilità di adottare progetti volti a ricostruire ciò che l’invasione barbarica ha distrutto nella Striscia, a restituire la vita al nostro popolo e a preparare le elezioni”, sviluppando e rafforzando “il sistema politico palestinese su basi democratiche, attraverso elezioni generali (presidenziali, legislative e del consiglio nazionale), secondo un sistema di rappresentanza completamente proporzionale, in elezioni libere, giuste, trasparenti e democratiche, con la partecipazione di tutti, ricostruendo così le relazioni interne sulle basi e sui principi della coalizione nazionale e di un autentico partenariato nazionale”.

Da allora, 28/12/2023, sono passati più di otto mesi. I 40.000 proletari palestinesi uccisi da allora (e quelli che seguiranno, insieme a tutte le devastazioni fisiche, psicologiche, materiali) sono dunque morti per “elezioni libere, giuste, trasparenti e democratiche”?!

***

Ora, in attesa di sviluppi nella drammatica situazione e dell’uscita di nuovi documenti da parte di Hamas, facciamo pure un esercizio di fanta-politica. Senza arrivare allo scenario di una ipotetica distruzione dello Stato d’Israele (ma a opera poi di chi?), ipotesi irrealistica se non come parte di un totale rivolgimento degli attuali equilibri internazionali e, di conseguenza, di un nuovo conflitto mondiale con tutto quel che ciò implica, ammettiamo che nasca infine uno Stato palestinese. A parte la prevedibile condizione di belligeranza incessante con il “vecchio nemico”, una belligeranza pari all’attuale se non peggiore e dunque sempre con immani sofferenze per il proletariato palestinese, chi gestirebbe la ricostruzione di Gaza e della Cisgiordania: il “popolo”? o non piuttosto, tramite il corpo dei loro funzionari, le borghesissime élites economico-finanziarie palestinesi, oggi all’estero e domani sanguisughe in patria, strettamente intrecciate (e in competizione) con il fetentissimo capitale internazionale,? E a chi apparterrebbe la terra: al “popolo”? a una lega di cooperative? a una moderna categoria di imprenditori agricoli? allo Stato? e, in ogni caso, i rapporti non sarebbero di sfruttamento dei braccianti palestinesi e immigrati? E infatti quale sarebbe, nel nuovo Stato, il rapporto fra capitale e lavoro, se non un rapporto di feroce sfruttamento del secondo a opera del primo, con un proletariato palestinese (e, di nuovo, immigrato) messo alla frusta per il “superiore bene della Nazione”? E potremmo continuare.

Sappiamo che si leveranno voci risentite: “Allora voi che cosa proponete?”. Noi possiamo solo dire ai proletari palestinesi (e, più in generale, arabi), indipendentemente dalla loro appartenenza o meno a questa o quella organizzazione, che qualunque prospettiva nazionale è un vicolo cieco destinato a protrarre all’infinito stragi, sofferenze, distruzioni; che l’unica via d’uscita, difficile e non in tempi brevi, implica il capovolgimento radicale di tutte le prospettive finora adottate e tenute in piedi (con le conseguenze che ben sappiamo, soprattutto dopo un anno di massacri) da tutte le formazioni “resistenziali” e “nazionaliste”; e che la prospettiva del comunismo (con tutto quello che essa comporta in termini teorici e pratici, di quotidiano scontro politico e aperta lotta sociale, fino alla guerra di classe) deve essere riconquistata e rimessa in atto, in stretto collegamento con il proletariato internazionale.

Qualunque sia l’esito politico dell’odierna, immane carneficina, il proletariato di Gaza e Cisgiordania (quello sul posto, quello emigrato e quello rifugiato, paralizzato dalla cinica carità pelosa degli organismi internazionali più che interessati a mantenerlo in uno stato di umiliante soggezione) 13, e di tutti i paesi arabi coinvolti più o meno direttamente e indirettamente, si troverà a doversi battere risolutamente sia contro lo Stato d’Israele che l’opprime in maniera selvaggia da ottant’anni sia contro la propria borghesia che l’ha utilizzato come carne da cannone per i propri interessi nazionali e traffici internazionali. Al contempo, toccherà al proletariato delle metropoli di più vecchio imperialismo, una volta ritrovata finalmente la strada dell’aperto conflitto sociale, senza compromessi e senza confini e sotto la guida del partito rivoluzionario, attrarre e inserire quella battaglia nella più ampia, generale e decisiva guerra di classe contro il modo di produzione capitalistico, in tutte le sue vesti politiche nazionali. Noi siamo per questa prospettiva. Lavoriamo per quest’obiettivo.

Strada lunga e accidentata? Certo. Ma altre non ve ne sono.

 

Note

1 Chiariamo subito: sappiamo bene che, nel “movimento palestinese” radicale coesistono anime e organizzazioni diverse, dal Jihad Islamico al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e ad altre formazioni; ma, in questi mesi, si sono praticamente tutte subordinate ad Hamas, condividendone la prospettiva e l’obiettivo nazionali. Una sorta di “Fronte popolare” medio-orientale… Anche in questo caso, la specialità, per la dannazione dei proletari, non è soltanto europea!

2 Cfr. “La chimera dell’unificazione araba attraverso intese fra gli Stati”, il programma comunista, n10/1957.

3 Al riguardo e per il seguito di questo nostro articolo, rimandiamo all’ampio studio di Paola Caridi, Hamas. Dalla resistenza al regime, Milano 2023, e all’articolo di Alessandro Mantovani, “Cosa attendersi da Hamas”, in www.rottacomunista.org. Di entrambi i lavori ci siamo ampiamente serviti.

4 “L’islamismo, risposta reazionaria e imperialista dopo la chiusura del miserabile ciclo borghese in Medioriente”, il programma comunista, n.3/2015. Va da sé che, nella visione di Hamas, nemmeno di vero “panislamismo” si può più parlare, ma di nazionalismo puro e semplice.

5 Cfr. “Manifesto to Peoples of the East”, in To See the Dawn Baku, 1920. First Congress of the Peoples of the East, Pathfinder Press, NY 1993, pp.221-233. In particolare, a p.226: “Che cosa ha fatto la Gran Bretagna alla Palestina? Dapprima, agendo nell’interesse dei capitalisti anglo-ebrei, ha cacciato gli arabi dalle terre per darle a coloni ebrei. Poi, cercando di placare il malcontento degli arabi li ha spinti contro quegli stessi coloni ebrei, seminando discordia, inimicizia, e odio fra le due comunità e indebolendo entrambe per rafforzare il proprio potere e la propria autorità...”.

6 Cfr. in particolare il punto 11 delle “Tesi sulla questione nazionale e coloniale” (riprodotte integralmente, con ampio commento, nella nostra Storia della Sinistra Comunista. 1919-1920, Edizioni il programma comunista, Milano 1972, pp.714-720).

7 In quegli stessi anni ’30, in cui verranno al pettine i tanti nodi della spietata controrivoluzione staliniana, con l’eliminazione fisica della “vecchia guardia” bolscevica, la creazione di “fronti popolari” in funzione di controllo di un proletariato che ovunque continuava a essere combattivo, e la forte ambiguità nei confronti della situazione medio-orientale, con conseguente disillusione da parte dei proletari palestinesi ed ebrei, i nostri compagni nell’emigrazione, riuniti intorno ai giornali Prometeo e Bilan, seppero tenere la barra ben dritta e continuare a indicare l’unica via rivoluzionaria, sia pure, all’epoca, minoritaria e contro-corrente. Cfr. “Uno sciopero in Palestina. Il problema ‘nazionale’ ebreo”, Prometeo, n.105, 17/6/1934; “Il Vicino Oriente: nuovo braciere della guerra imperialista”, Prometeo, n.149, 31/10/1937; “Le conflit Arabe-Juif en Palestine”, Bilan, nn.31 e 32/1936; “Le monde arabe en ébullition”, Bilan, n.44/1937. Dopo accurata ricerca e analisi, andrebbero poi analizzate le vicende del Partito Comunista di Palestina.

8 Cfr. “Residui e cancrene delle cosiddette ‘questioni nazionali’”, il programma comunista, n.1/2017.

9 Cfr. https://www.cesnur.org/2004/statuto_hamas.htm. Vedi anche le sezioni “La concezione del tempo e dello spazio del Movimento di Resistenza Islamico” (“Allah è il suo scopo, il Profeta è il suo modello, il Corano è la sua costituzione”), “Unicità e indipendenza” (“Il Movimento di Resistenza Islamico è un movimento palestinese unico”) e “L’universalità del Movimento di Resistenza Islamico” (“il movimento ha carattere universale”).

10 “Fin dall’alba della storia, la Palestina è stata l’ombelico della Terra, il centro dei continenti, e l’oggetto dell’avidità per gli avidi” (Articolo 34, Capitolo V: La testimonianza della storia). Come analisi storica, non c’è male!

11 A questo proposito, a voler essere davvero irriverenti, andiamo su un altro pianeta, anni luce lontano: “Fino a quando le donne non saranno chiamate a partecipare autonomamente non solo alla vita politica nel suo insieme, ma anche al servizio civile permanente e generale, non si potrà parlare non solo di socialismo, ma nemmeno di democrazia integrale e durevole. Funzioni di ‘polizia’, come l’assistenza agli infermi e all’infanzia abbandonata, il controllo igienico sull’alimentazione, ecc., non possono essere garantite in modo soddisfacente fino a che le donne non avranno ottenuto di fatto, e non soltanto sulla carta, l’uguaglianza giuridica” (Lenin, “I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione”, 10 aprile 1917).

12 Cfr. https://wwwmiddleeasteye.net/hamas-2017-document-full.

13 Da meditare: “Ogni società si è basata finora, come abbiam visto, sul contrasto fra classi di oppressori e classi di oppressi. Ma, per poter opprimere una classe, le debbono essere assicurate condizioni entro le quali essa possa per lo meno stentare la sua vita di schiava. Il servo della gleba, lavorando nel suo stato di servo della gleba, ha potuto elevarsi a membro del comune, come il cittadino minuto, lavorando sotto il giogo dell'assolutismo feudale, ha potuto elevarsi a borghese. Ma l'operaio moderno, invece di elevarsi man mano che l'industria progredisce, scende sempre più al disotto delle condizioni della sua propria classe. L'operaio diventa un povero, e il pauperismo si sviluppa anche più rapidamente che la popolazione e la ricchezza. Da tutto ciò appare manifesto che la borghesia non è in grado di rimanere ancora più a lungo la classe dominante della società e di imporre alla società le condizioni di vita della propria classe come legge regolatrice. Non è capace di dominare, perché non è capace di garantire l'esistenza al proprio schiavo neppure entro la sua schiavitù, perché è costretta a lasciarlo sprofondare in una situazione nella quale, invece di esser da lui nutrita, essa è costretta a nutrirlo. La società non può più vivere sotto la classe borghese, vale a dire la esistenza della classe borghese non è più compatibile con la società” (Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, Cap. I: Borghesi e Proletari).

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